Colóquio Internacional Spinoza. Ser e Agir 28, 29 e 30 Outubro 2010


Riccardo Caporali, Spinoza e la guerra

11-03-2010 20:05


 

Spinoza, per un verso, è senz’altro partecipe del pensiero “razionalistico” moderno, che vede nello Stato il rimedio ai conflitti di religione: la libertà di pensiero e di culto, sulla quale particolarmente insiste il TTP, non contraddice né tempera questa sostanziale adesione, tale libertà essendo fermamente e rigorosamente scandita dalla imprescindibile priorità dell’imperium e dei suoi iura positivi. Neutralizzato il conflitto all’interno dello Stato, la guerra si configura – non diversamente da Hobbes – come un diritto del sovrano (summa potestas) nella gestione dei rapporti esterni, e cioè inevitabilmente naturali, con gli altri Stati. La guerra, in sostanza, è uno strumento a disposizione nell’arsenale della politica.

Costruito sull’equazione diritto-potenza e sulla mobilità – costitutiva ma al tempo stesso continuamente eccedente, resistente ed eversiva – della multitudo rispetto all’imperium, l’impianto generale della filosofia politica spinoziana spinge tuttavia, per un altro verso, a porre particolare e prevalente attenzione sulle ricadute, sulle ripercussioni della guerra nell’assetto interno dello Stato e nella sua stabilità. Mera articolazione, in superficie, della forma politica, l’uso (o il non-uso) della guerra incide invece radicalmente e continuamente nella funzionalità, nella potenza, nelle possibilità di persistenza di quella stessa forma politica. E allora la vocazione aggressiva ed espansiva che anima il monarca-tiranno del TTP, prima e più che una conseguenza di ambizione e passione (giuste le rappresentazioni tradizionali), è un’esigenza, una irrinunciabile tensione alla totale mobilitazione dei sudditi, al totale condizionamento dei corpi e delle menti dei governati, spinti/convinti dal fragore delle armi a credere che «non solo non sia sconveniente, ma che sia il massimo degli onori sacrificare il proprio sangue e la propria vita per la gloria di un sol uomo»: scelta in ogni caso pericolosissima, perché corre sul filo dell’opportunità e del rischio fatale – come sempre, quando si chiede agli uomini di cessare di essere tali. E allora, all’opposto, la rinuncia alla guerra tende a rafforzare la pace attiva dell’imperium democraticum, volto all’eguaglianza, alla collaborazione, all’accumulazione, allo scambio: una scelta che fa la massima potenza di questa species della potestas (l’unica davvero omnino absoluta, in quanto la meno formidolosa), ma anche, insieme, la sua natura «minus diuturna», incessantemente attentata sia dalle minacce esterne (alla pace, a differenza della guerra, non essendo possibile muovere da soli), sia – e soprattutto – dalla sua stessa natura plurale, dinamica, moltiplicativa. Anticipando tratti storico-teorici del futuro, l’impossibilità di allontanarla dalla multitudo (dalla maggiore o minore potenza, dalla maggiore o minore “pazienza” della moltitudine) fa sì che la guerra spinoziana non si contenga mai nella sua sola caratura razionalistico-moderna, esterna/strumentale, ma si rovesci continuamente all’interno dell’imperium: destinato a maneggiarla e gestirla, e per ciò stesso esposto al pericolo mortale di esserne colpito e travolto.

 

 

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